Cambi di rotta e paura di sbagliare

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BUON ASCOLTO!

Ero a cena con Anna, quando pronunciò queste parole: "Sai cosa mi ripete sempre Davide? Che il problema di noi laureati è quello di credere che nella vita possiamo fare solo una cosa, quella per cui abbiamo studiato". Fisso Anna nei suoi occhi dolci e gentili e le sorrido. "Ecco perché Davide mi è sempre piaciuto!" dico battendo la mano sul tavolo. In quella piccola frase Davide era riuscito a racchiudere il disagio di tantissimi giovani, tra cui il mio.

Decidere di cambiare strada, non è stato facile. Ammettere che forse avessi studiato qualcosa che non fosse propriamente giusto per me, ancora meno. Se consideriamo il parere contrariato della gente che mi ripeteva a disco rotto "È un vero peccato buttare un titolo così!", diciamo che ci diamo il colpo di grazia! E come me, ogni giorno, migliaia di giovani vivono questo supplizio. Quest'enorme aspettativa di dover decidere il proprio futuro su due piedi, a 18 anni. Come se la vita fosse un crocevia di scelte in cui è vietato sbagliare o avere ripensamenti e che ti può condurre in una sola direzione possibile che tu devi scegliere a quell'età. Un'unica possibilità di riuscita o fallimento. Nell'equivoco che ci sia un solo senso unitario nel proprio essere, quando tutti noi siamo molto più complessi di così. Quando la vita stessa è molto più complessa di così. Ecco perché giunge l'ansia, l'insonnia e tutti quei disturbi gastrointestinali che non ci fanno vivere bene le scelte che siamo portati ad esprimere. Come se non potessimo fare altro che scegliere e soprattutto scegliere bene. Quella scelta che metta d'accordo tutti e ci faccia proseguire senza intoppi fino allo step successivo. Alla prossima scelta da compiere e il successivo attacco di panico. Il tutto perché neghiamo quanto questa narrativa sia malsana e poco veritiera.

Me lo confermano le storie delle persone che mi scrivono: la vita non va mai secondo le previsioni che ci facciamo. Chi ha cambiato lavoro un paio di volte prima di trovare la sua strada, chi ha visto terminare un matrimonio che gli aveva fatto credere nel per sempre, chi ha subito lutti o perdite impensabili e chi ha deciso di stravolgere la propria vita a 50 anni suonati. Cos'è allora che permea le nostre scelte quotidiane e che ci fa vivere nell'ansia di poter sbagliare a scegliere quando la vita è così imprevedibile? Me lo sono chiesta davanti il foglio delle dimissioni dell'ospedale, l'anno scorso. Mi chiedevo quanto fosse giusto mollare tutta quella sicurezza lavorativa. Nella testa mi ronzavano mille pensieri, la voce di quella società che sembra sempre sapere meglio di te come ti devi sentire e cosa devi fare. Una società infarcita di giudizi morali e frasi fatte, che non ammette repliche, compromessi o ripensamenti. La società performante del "tutto al primo colpo". Una società ipocrita in cui io mi sono sempre sentita in competizione e allo stesso tempo in difetto quando le cose non mi riuscivano come speravo. Quando sbagliavo e fallivo. Un'onta morale che mi pesava addosso come una condanna. Un giudizio incontestabile del mio valore personale. Come se tutto fosse riconducibile al risultato mancato e perdendo quello, perdessi il diritto ad andar bene ed essere amata. Un qualcosa di così vivido dentro di me. La mia vita è stata un continuo inciampare e vergognarmi per averlo fatto, come quando da bambini correndo a perdifiato finivi faccia a terra dopo che tua mamma ti aveva detto di rallentare per non cadere. Ti alzavi più veloce della luce per evitare che qualcuno si accorgesse del fallo. Spolveravi rapido le ginocchia coperte di terra e stringevi i denti se cadendo ti eri sbucciato qualcosa. Con le guance rosse e gli occhi lucidi fingevi che tutto andasse bene e cercavi di non pensarci, far sapere che eri caduto faceva paradossalmente più male delle sbucciature sulla pelle.

 
 

Davanti quel foglio bianco ho fatto la mia scelta: ho taciuto quel brusio esterno e sono rimasta in ascolto delle mie sensazioni. Di me stessa. Nel silenzio della mente sentivo il mio corpo urlare una sofferenza che non si meritava e che non voleva più. Aprendo gli occhi con movimenti meccanici ho preso la penna posta davanti a me e firmai le mie dimissioni. Il peso al petto che mi tormentava da un po', ha allentato la presa quasi immediatamente. Il sorriso si allargò in volto. "Niente è ancora scritto" mi sono ripetuta. Non mi sono mai pentita di quella scelta. Dentro di me era chiaro che fossi  arrivata al mio stremo e sebbene non sapessi esattamente cosa volessi fare, in quel momento sapevo bene cosa non volessi più fare e in quale modalità. Davanti a me si spiegava nuovamente un ventaglio di possibilità che mi entusiasmava e mi riempiva i polmoni d'aria. La possibilità di tornare indietro e provare una nuova strada, una strada che mi riportasse il sorriso sulle labbra e che mi accendesse nuovamente l'entusiasmo che mi ha sempre contraddistinto. La possibilità di rimettermi in gioco e imparare qualcosa di nuovo.

Non sarebbe ora di rivendicare la nostra fallibilità come diritto inalienabile dell'essere umano? La libertà di provare, di riuscire ma anche di poter fallire. Provare una strada senza aver paura di non poterla cambiare, se scopriamo che non è più la nostra strada. Tentare un sogno anche senza certezze di riuscita. Impegnarsi ed essere fieri di se stessi a prescindere dal risultato ottenuto, puntare al meglio senza denigrare se stessi se non si arriva a sfiorarlo. Imparando a non giudicare noi stessi e gli altri nel farlo. Perché staremo tutti meglio se provassimo ad avere rispetto per i tentativi che ognuno di noi fa per stare al mondo ogni giorno.

Ma soprattutto vorrei che ci riappropriassimo dell'entusiasmo bambino di mettersi alla prova sempre, in cose nuove e stimolanti. Che ci rendano felici. Senza il timore del giudizio o dello sbaglio. Ma anzi curiosi di sbagliare, perché significa che abbiamo ancora altro da imparare. Perché quelle vocine maligne che vi risuonano dentro e che vi condizionano il pensiero non sono altro che voci assimilate da questa società performante che ci circonda. Non sono reali, non sono nostre. Quindi non fatele vostre. Non ascoltatele quando vi spingono a vergognarvi delle vostre cadute, perché rialzarsi dopo una caduta o modificare i propri piani richiede un talento maggiore che eserguirli senza mai affrontare impedimenti o defaillance.

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