Nei disagi ci si nasconde
Di seguito trovi la lettura, in formato audio, dell’articolo.
Buon ascolto!
In un video del dottor Raffaele Morelli, un giorno, sentii queste parole:
"Nei disagi ci si nasconde".
Mi si impresse questa frase così forte nella mente, che sentivo la necessità di scriverci due righe. Sono piccole riflessioni, di una donna comune. Una donna che è scappata da certe consapevolezze, nascoste forzatamente dietro a pile di ricordi, nello sgabuzzino della sua anima. Mi piace paragonare la mia psiche ad una bella casa, come quella che avevo ad Arco, laddove ho potuto sperimentare per la prima volta la mia indipendenza più totale.
Ora fate questo gioco con me e ditemi: come vedete la vostra casa interiore?
La mia non è così grande, ma è luminosissima. La luce entra calda e brillante da ogni finestra, accarezza ogni posto, meno che uno: lo sgabuzzino. Quell'anfratto ricreato nell'unico punto cieco della casa. Non è tanto grande, ma io riesco a farci stare di tutto. Quell'angolo di casa che si guarda sempre con una speranza fanciullesca di poter un giorno riordinarlo, come nelle foto patinate dei guru dell'organizzazione. Magari in divisione cromatica.
Eppure, ogni volta che apro quello sgabuzzino, lo faccio solo per buttarci qualcosa dentro alla rinfusa e chiudo la porta. Senza neanche cambiare quella vecchia lampadina alogena che non illumina niente. Lo senti il contrasto?
Fuori tutto luminoso.
Lo sgabuzzino: nero come la pece. Lo rappresentavo nero come i demoni che vi risiedevano e che io non volevo disturbare. Fintanto che tutto rimaneva nello sgabuzzino, io potevo fingere che nulla di quello che c'era dentro esistesse.
Fingere di vivere serena. Almeno questo è quello che credevo.
Fingevo di non capire poi, quando le cose non andavano bene, mentre lo sgabuzzino mi guardava traboccante di cose non dette e vissuti non elaborati. Finsi fino a quel giorno: il giorno in cui, finalmente, ho capito che non potevo continuare oltre in quella sciocca recita. Me ne accorsi quando me lo svelarono le mie amiche, quando mi dissero che si vedeva che stavo tenendo tutto dentro. Lo sgabuzzino, quindi, non passava così inosservato. Loro se ne erano accorte, ancora poco e tutti se ne sarebbero accorti. E qui si hanno due strade: o si prende tutto e si nasconde in cantina, che è come nascondere la polvere sotto il tappeto, oppure ci si rimbocca le maniche, si cambia quella maledetta lampadina bruciata e si riordina il passato.
Qui sta a noi, a chi vogliamo essere e chi vogliamo diventare. La strada facile o quella da cui imparare.
Io feci la mia scelta e la rifarei ancora. Perché è dentro lo sgabuzzino che ho trovato la persona di cui avevo più paura: me stessa.
Il confronto è stato brutale: rannicchiata in un angolo, sommersa da ricordi dolorosi ormai avariati, nel fetore e nella sporcizia… c'era lei. E c'è stata per così tanto, che io mi ero abituata alle sue grida di aiuto rimaste prima inascoltate poi affievolite, fino a spegnersi. Non è stato facile scoprire che io ero la carnefice di me stessa. Ero stata io a segregarla lì, tra le pile di ricordi putridi. Eppure ero anche io, ora, a ripulirle il viso tra le nostre lacrime, che si mescolavano. A chiederle scusa, mentre disinfettavo e curavo tutte le ferite sul suo povero corpo, che era il mio. Ad accarezzarle i capelli per farla tornare a sognare ancora. Giorno dopo giorno, scatola dopo scatola, ho rivisto tutto scegliendo cosa tenere e cosa buttare. Quanto serviva, da quanto era superficiale. Fino a liberare tutto, per dare nuovo spazio e nuova luce a ricordi freschi belli e gioiosi. Per rendere quello sgabuzzino, parte della mia casa, bello e meritevole di luce e attenzione, come gli altri locali.
Ho scoperto di apprezzare la compagnia di una coinquilina. Un po' maldestra, un po' chiassosa, fragile e sensibile. Un po' bambina.
La me bambina.
Ed ora che la casa è abitata anche da lei, tutto suona diverso. Una musica allegra che pervade ogni angolo della mia casa, che è la sua. Fatta di risate, qualche pianto e tanto amore. Il nostro.
Il mio.